Pinaco Arafanca, il mio paesino natale. Quando ci penso,
sento quasi il profumo dell’aria fresca di montagna, mista a un sentore di
legna bruciata e terra umida. Non c’è mai stato bisogno di altro per rendere le
mie giornate speciali, nemmeno quando ero bambino. Lì il tempo sembrava
scorrere più lentamente, ed ogni singolo momento assumeva una qualità unica,
che ho poi capito appartenere solo a quel luogo.
Pinaco Arafanca è un piccolo agglomerato di case arrampicate
su una collina, collegato da una manciata di stradine che, da bambino, mi
sembravano le arterie principali di un intero universo. Passavo le giornate a
scoprire ogni angolo del paese, esplorando i vicoli stretti e le scalette
ripide, osservando come ogni casa fosse diversa dall’altra ma parte di un
mosaico unico. Quelle quattro strade erano tutto quello che mi serviva per
avventure infinite. Ricordo che sembravano vie fatate, con i muri in pietra vecchi
e irregolari che davano l’impressione di custodire storie antiche. Ci passavo
le ore a fantasticare e, qualche volta, a trovare un angolino dove nascondermi
con i miei amici, come se fossimo i custodi di quei segreti silenziosi.
E poi c’era l’oratorio. Non era solo un luogo di preghiera o
di ritrovo domenicale: per noi ragazzi era un vero e proprio rifugio. Lì ci
riunivamo ogni pomeriggio, scoprendo cosa fare con pochissimo: una palla
sgonfia per il calcio, le corse sfrenate sui campetti pieni di buche, una
partita a nascondino tra le piante di ginestre e gli alberi nodosi che
circondavano il campetto. L’oratorio aveva un suo fascino speciale, un angolo
dove sentirsi a casa, tra le risate, le sbucciature alle ginocchia e le rincorse
senza fine. Le piccole cose, lì, erano tutto: una gara a chi salta più in alto
o una mano tesa per aiutarsi a scalare il muretto.
Ogni estate vedeva il ritorno degli amici, quasi come fosse
un appuntamento solenne. All’inizio, eravamo pochi, sparpagliati per le 4 vie in croce e le case, ma, a mano a mano, il paesino prendeva vita con le nostre voci.
Anche quando sembrava non ci fosse niente da fare, ci inventavamo sempre
qualcosa. Capitava spesso che un adulto, osservandoci correre o saltare in
giro, ci rimproverasse scherzosamente, “Con tutta questa energia, potreste
alzare le montagne!” – e noi ci credevamo davvero.
Un ricordo speciale è il giorno della festa del paese. Tutti
si preparavano con largo anticipo, ognuno impegnato a suo modo per rendere
l’evento indimenticabile. Le bandierine colorate si intrecciavano come un
grande tappeto volante sopra di noi, e la piazzetta si trasformava in un cuore
pulsante di gioia e rumore. Era il momento che aspettavamo tutto l’anno. Gli
anziani, con le loro voci rauche e i visi scavati dal tempo, ci raccontavano
sempre delle feste passate, quasi volessero tramandarci quel senso di
appartenenza che rendeva Pinaco Arafanca il nostro piccolo angolo di mondo.
Una delle parti migliori della festa era la tombola. Con un
certo orgoglio, tutti ci sedevamo attorno ai tavoli di legno, pronti a
“sfangarla” con il numero vincente. C’erano i più grandi che scherzavano sul
premio, sognando di tornare a casa con un prosciutto o una bottiglia di vino.
Noi ragazzi, invece, ci accontentavamo di qualsiasi cosa, anche di un piccolo
giocattolo o una scatola di caramelle. Alla fine, però, quello che contava non
era vincere, ma condividere quei momenti.
Anche la processione era un rito importante. Ogni anno,
seguendo la Madonna attraverso le vie del paese, sentivo una sorta di reverenza
per quel luogo e per la gente che lo abitava. Era come se in quel momento ci
fosse una fusione tra la tradizione e il presente, e camminare tra le stradine
strette illuminato solo dalla luce delle candele mi faceva sentire parte di
qualcosa di molto più grande.
Le serate erano speciali in modo diverso. Mentre il giorno
si spegneva, i vicoli si popolavano di chiacchiere e di risate, e il cielo
stellato era una tela su cui dipingevamo i nostri sogni. La notte di San
Lorenzo, in particolare, aveva qualcosa di magico. Armati di coperte, salivamo
fino alla piazzetta più alta, dove il cielo era limpido e pieno di stelle. Lì,
sdraiati a terra, ci perdevamo in lunghe chiacchierate su desideri e progetti,
cercando stelle cadenti e stringendo un patto silenzioso di eterna amicizia.
Quel paesino, con i suoi vicoli stretti e le sue quattro
strade in croce, era tutto per me. La mia infanzia ha il sapore delle risate
dei miei amici, del pane caldo che il fornaio ci regalava ogni tanto e del
profumo dei campi che circondavano l’oratorio. In quel piccolo mondo, ho
imparato a conoscere me stesso e gli altri, a scoprire il valore delle cose
semplici, e soprattutto a capire che, nonostante tutto, ogni volta che ci
torno, Pianco Arafanca mi aspetta.
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Il mio Imprinting è un paesaggio antropico restituito alla natura, l'apparente ordine portata dall'uomo viene riportata allo stato primitivo,
CARATTERISTICA FONDAMENTALE DELL'IMPRINTING:
ENTROPIA 0
DISORDINE : la materia estratta e disposta dall'uomo secondo le sue logiche torna a formare montagne, di detriti, ma pur sempre montagneFRAMMENTARIO: la regolarità della tinta unita dei paramenti, instabile come ogni intervento umano si disgrega in pigmenti a terra, e ritorna ad un caos originale, un caos stabile.
TESSITURE PLANIMENTRICHE IMPRINTING INSERITE NEL CONTESTO DI PROGETTO
tessiture area / arteria amatrice
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